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Coscienza evangelica e antropologia della filialitàtorna su

Con l’intervento del Prof. Roberto Mancini, docente di Filosofia teoretica all’Università degli Studi di Macerata, su Coscienza evangelica e antropologia della filialità, si apre la sezione fondativa del Seminario di studio che, da oggi a giovedì 26 settembre, impegnerà le partecipanti ad approfondire la categoria della filialità interpellando varie scienze, in particolare, mediante l’approccio dell’antropologia della creaturalità, quello psicologico, biblico, teologico mariano e pedagogico carismatico dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (FMA).

La relazione di Mancini considera le dimensioni della filialità contestualizzandole e aprendole alla prospettiva evangelica e lo fa riflettendo sul significato del divenire figlie e figli di Dio seguendo la via aperta da Gesù di Nazareth; individuando le tracce della coscienza della filialità rinvenibili nella cultura contemporanea; interrogandosi circa le implicazioni salienti per il concetto di educazione e per il tipo di azione che ne consegue.

«Il Vangelo non narra la fondazione di una nuova religione - precisa in apertura - ma la generazione di una nuova umanità, cioè la trasfigurazione degli esseri umani fino a che tutto in essi non divenga altro che amore; la parola del Vangelo ha natura di parabola, perché è questo testo a “leggere” noi, a interpretare e a rispecchiare la nostra vita rivelandoci a noi stessi». Da qui, è importante, tener presente la condizione della comprensione dei testi evangelici: si può capire la loro parola soltanto man mano che entriamo in essa con l’esistenza, cioè solo se partecipiamo a esperienze corrispondenti ai significati evangelici: «il Vangelo ha una sua logica, che spesso ci spiazza, perché muta il senso che noi siamo soliti dare alle cose».

Sono proprio le “parole inaudite” di Gesù che oggi ci interpellano, tra queste sicuramente vi è la filialità, la rivelazione della dignità delle figlie e dei figli di Dio. «È decisivo - sottolinea - il modo in cui noi siamo “figli”»: non con un amore qualsiasi, ma creativo, generoso, paziente, fedele, misericordioso, liberante; non un prodotto del nostro sforzo, ma che nasce dall’essere stati amati già così. La filialità è allora adesione all’amore del Padre; generazione di fraternità e sororità, non contraddistinte dal conflitto, dalla negoziazione per avere pari diritti e doveri, ma dalla gratuità, dalla solidarietà generosa, dall’ospitalità reciproca: un amore transitivo, generativo, esperibile nell’esistenza e nelle relazioni quotidiane.

Nel secondo passaggio, Mancini considera l’orizzonte della cultura contemporanea, osservando che «l’autonomia dei moderni è quella che, muovendo dall’io e dalla sua libertà di autodeterminazione, rovescia la forma evangelica della relazione interpersonale, per cui il fratello o la sorella sono niente di più che un altro, non inteso come originale “alterità” quanto irrilevanza e oggettivabilità».

È questo l’“individualismo metodologico” crescente che informa di sé la visione moderna del reale sul piano antropologico ed etico, su quello politico ed economico, trovando la sua attuazione storica globale nella società di mercato, dove tutti i rapporti sono orientati alla regola suprema della competizione, supportata dalla prassi della violenza e del dominio.

Sulla base del pensiero di Maria Zambrano, Mancini chiarisce come «la condizione di figlia o di figlio non riguardi esclusivamente il credente o il cristiano, ma coinvolga l’essere umano come tale, qualunque sia la sua visione della vita», perché vi sono tratti irrinunciabili: l’unicità, la relazionalità, l’apertura al bene, alla verità, alla bellezza, all’infinito, a Dio e al divino; l’integrità e l’armonizzazione di tutte le dimensioni della persona; la responsabilità dell’essere per l’altro.

Infine, il terzo e ultimo passaggio: ripensare l’educazione, in quanto «più che di “educare alla filialità”, si pone l’esigenza di “educare nella filialità”. Ciò significa che soltanto in un contesto in cui qualcuno ha già aderito alla vera condizione di figlia o di figlio diventa possibile condividere il dinamismo di questa trasformazione del modo di esistere, nonché di pensare se stessi e gli altri». Questo si traduce nel preparare per i giovani il loro incontro con le forze educative del mondo: la natura, la cultura, tutto ciò che può farli crescere in umanità. Nell’ottica del cristianesimo è qui incluso evidentemente l’incontro con l’amore di Dio, con la Parola, con i segni concreti della vita cristianamente trasformata, con coloro che sanno renderlo trasparente nei contesti della quotidianità. Allo stesso tempo, educare significa aiutare qualcuno a completare la propria nascita, svolgendo un’azione maieutica e liberante: liberare le persone e la loro capacità di amare.

L’istanza finale per Mancini è quella «di diventare persone capaci di esistere con e per amore. Persone così umanizzate da consentire finalmente quella conversione corale per cui, invece del potere, potrà essere l’amore liberante a dare forma tanto all’esistenza dei singoli quanto alla convivenza sociale. Ciò rappresenta una svolta storica profondissima, di cui l’umanità non è a priori incapace».

L’intervento di Mancini, conclude una giornata che si era aperta con una tavola rotonda, introdotta dalla Prof.  Grazia Loparco, Docente di Storia della Chiesa alla Facoltà «Auxilium», dove sono state presentate tre figure di FMA che hanno operato in contesti sociali e storici diversi, Polonia, Costa Rica e India, con l’obiettivo di approfondire come la consapevolezza di essere “figlie” dell’Ausiliatrice ha motivato, ispirato, plasmato, sostenuto la loro missione educativa, tradotta in atteggiamenti di maternità per i piccoli, i giovani più poveri, le donne.

In particolare, la Prof. Loparco ha sottolineato che «una corretta interpretazione delle fonti dimostra come il culto mariano abbia attivato il protagonismo femminile all’interno della Chiesa e, dunque, anche della nostra congregazione religiosa: ha sostenuto la soggettività e il coraggio per superare difficoltà e condizionamenti, ha aperto l’aspetto devozionale alla missione educativa, ha determinato risposte inedite alle povertà culturale e sociale soprattutto femminile».

In questo quadro di riferimento, le vita di sr. Laura Meozzi, di origine italiana pioniera della presenza delle FMA in Polonia e di cui è in corso la causa di beatificazione, della Beata sr. Maria Romero, nicaraguense che ha operato a San José de Costa Rica, e di sr. Nancy Pereira, indiana riconosciuta con premi a livello internazionale per la sua “banca dei poveri”, sono tre FMA significative nel progetto educativo salesiano. «La situazione esistenziale - ha precisato ulteriormente la relatrice - interpellò ciascuna a rileggere e interpretare la missione di un Istituto di “figlie” e, pertanto, di “madri”: divennero religiose lungimiranti e molto concrete nell’azione, solidali, apripista audaci e tenaci, capaci di osare per il bene dei giovani e delle loro famiglie, responsabili e intraprendenti per la fede viva nell’aiuto potente di Maria che le sorreggeva. E sono nate idee nuove, coinvolgenti, non di rado rischiose, che hanno generato vita».

 

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